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Vite Isolane” è il secondo numero di Cariddi, la rivista di Rossomalpelo Edizioni: uno spazio che ospita autori veri che parlano di autori dimenticati e immaginari. È possibile acquistare Cariddi in tutte le librerie, oppure scrivendo a rossomalpeloedizioni@gmail.com. Nell’articolo, un breve un estratto del numero: l’articolo “Vita e non vita di Rosa Balistreri” di Maria Lo Conti.

“Vite isolane” indaga, in minuscole storie, innumerevoli vite siciliane, reali e immaginarie, mantenendo aperto il confine tra questi due mondi e consentendo continue incursioni nell’uno o nell’altro. Lo spirito letterario che anima il numero è quello di Edgardo Franzosini, lo scrittore italiano che, nei suoi romanzi, ha meravigliosamente raccontato biografie più o meno note, portando le vite nella letteratura e viceversa.

In una rapida carrellata, appariranno, tra le altre, storie di personaggi simbolo della cultura popolare isolana, come “Memorie di Giufà”, episodi storici truculenti, “L’eccidio degli ebrei di Modica”, vite minuscole improbabili alla sfida della Storia, “La crociata di Palermo”, gli strani rapporti col clima isolano di scrittori stranieri, “Sud Sad Story”, e anche toccanti riflessioni di figure note, “Vita e non vita di Rosa Balestreri”,

Il numero è arricchito da una graphic novel, “Un sogno a due ruote”, e dalle strisce fantastiche di Catullo & Catello.

“Vita e non vita di Rosa Balistreri”
di Maria Lo Conti

La mattina presto una linea lunga di rugiada corre per il campo. Visibile a stento, muta in una bava luminescente appena si affacciano le prime luci dell’alba. Le ceste sono quasi piene, al loro interno forme rotonde si contorcono e si allungano, risalgono ciecamente lungo i bordi, trascinandosi dietro il peso di un guscio duro e cavo.
Le lumache hanno una carne succosa, buona per le tavole dei signori, una carne di cui a Rosa non importa niente: ha vinto il disgusto di toccarne il corpo viscido con le dita ma mai si sognerebbe di tenerle in bocca. Qualche volta, staccandole dalle reti, le torna in mente la faccia avvinazzata di Iachinazzu, marito lagnusu e latru, le sue sopracciglia folte, le dita tozze e ruvide e la ferita che gli aprì nel collo il giorno in cui si giocò a carte il corredo di Angelina.
È per lei che resta lunghe ore piegata a raccogliere capperi e babbaluci, a
spigolare, a conservare sotto sale infinite quantità di sarde, è per Angelina, per quel suo sangue, per darle, dopo la prima, un’altra vita. Quello per sua figlia è l’amore assoluto e senza ragione della madre. Ma le attecchisce in cuore un altro amore il giorno in cui vede il figlio dei padroni, mentre è a servizio nella casa di una famiglia benestante di Palermo. Ha gli occhi profondi, un sorriso da re, quando scopre che Rosa è rimasta incinta le chiede di rubare del denaro ai suoi genitori e fuggire insieme. Rosa lo fa, e finisce in galera.
Quando torna libera il suo profilo è ormai cambiato, una pancia grossa
e piena le inarca la schiena. L’aiuta a partorire un’ostetrica conosciuta in
carcere, il figlio però non c’è, il figlio è un corpo piccolo e privo di vita, il
solo pianto che sente, quel giorno, è il suo. Quel giorno, come altri giorni,
le sembra di non avere niente, non ha questo figlio, né l’amore, non una
lira dei soldi che si è guadagnata a fatica, solo il dolore ha, quello soltanto
le appartiene. E fuori dal dolore, feroce e imperterrita, la vita avanza come
una belva

Illustrazione dell’articolo a cura di Maria Antonella Mannino